Madame Claude: recensione del film Netflix di Sylvie Verheyde
Una biografia potenzialmente intrigante in un film scostante e inaccessibile come la sua stessa protagonista. Madame Claude non riesce a ridurre la distanza con lo spettatore e si rifugia nelle atmosfere. Dal 2 aprile su Netflix.
Che un biopic debba seguire fedelmente fatti e cronologie verificate per chiamarsi tale è ormai cavillo più che superato, tanto che alcuni registi di film biografici hanno riscritto a loro modo figure più o meno conosciute anche attraverso la libertà di reinterpretazione. Quel che si cerca maggiormente in un film come questo è, in realtà, la rottura della distanza fra personaggio e spettatore, aprendo una faglia verso l’esplorazione del nocciolo più interno e intimo di una figura contemporanea e non, per acciuffare, finalmente, l’essenza di un singolo e delle sue possibili tracce sulle vite degli altri.
Sarebbe stato decisamente interessante conoscere davvero anche Madame Claude, all’anagrafe Fernande Grudet, la più grande tenutaria di bordelli francesi morta sei anni fa a 92 anni e la cui inesorabile battuta (letteralmente) d’arresto, avvenuta a metà degli anni 70, fa da sfondo all’ultimo film di Sylvie Verheyde (Sex Doll, Confession of a Child of the Century) che di quel potenziale fascino libertino e di quella vita vissuta tra edonismo e sfrenata corsa al potere ne lascia invece un pallido profilo in controluce.
Madame Claude: storia (vera) di una maitresse
Ricostruito in stile retrò seppur in chiave moderna e un palese gusto estetico che strizza l’occhio al cinema di quegli anni, il film di Verheyde ritrae sin da subito una donna scostante e cinica, che ha trovato nella prostituzione femminile di alto livello la via di riscatto da un passato umile, una gravidanza non voluta in giovane età e un incolmabile vuoto sentimentale che nemmeno tutto quel sesso riesce a colmare. Imperturbabile, distante e lucida Madame Claude (Karole Rocher) siede dietro la scrivania del suo prestigioso bordello del 16 ° arrondissement di una Parigi borghese e gaullista, pronta a rispondere al telefono per appuntarsi la prossima ‘voglia’ di uomini facoltosi e nel frattempo selezionare corpo, attitudine e disinibizioni di reclute che quelle voglie le realizzeranno tutte.
Tra di loro anche Sidonie (Garance Marillier, la Justine di Raw – Una cruda verità), appena arrivata e subito diventata la ‘preferita’, con lei condivide una violenza subita nel silenzio delle mura domestiche e un’inquietudine autodistruttiva che la porta a pagare il prezzo del potere e dell’anonimato, immischiandosi con losche figure criminali e un affare di poteri politici, scandali e collaborazione con i servizi segreti. L’emancipazione della prostituzione da bassi fondi arriva dunque su nei lussuosi alberghi di mezzo mondo, Madame non è materna (se non nel senso di insegnare alle sue dipendenti come tenere una corretta igiene intima), men che meno protettiva, invia call-girl a clienti ben paganti ma poco gestibili, lasciati agire in fantasie sfociate in vere e propri abusi deturpando corpi e visi di ragazze che quel mestiere devono impararlo a gestire con freddezza e devozione sin da subito. Ma alla presidenza del neo governo di centro-destra di Giscard d’Estaing, la bolla del piacere gaudente esplode e il fisco le chiede indietro 11 milioni di franchi mai pagati, una pena carceraria scontata negli Stati Uniti e una vecchiaia in solitudine a Nizza, quando sul finire del secolo lo sguardo continua naturalmente a posarsi su corpi femminili giovani, forse a cercare, come il mestiere le ha imposto, nuove bellezze da offrire al potere.
Curiosità insoddisfatte di un biopic indifferente
Dal ritratto che ne fa la Verheyde però, l’unica cosa chiara della figura di Madame Claude è quello di una donna dura, algida, puntuta e forgiata su un mestiere che non ammette l’entrata in sordina di sentimenti superflui. A Pigalle l’occhio della regista si lascia andare alla mera ricostruzione di un’atmosfera più che di una personalità, esaltando l’edonismo dei locali notturni, tra sigarette fumate e sguardi lascivi posati su seducenti esibizioni di burlesque. Ma la rievocazione di un’epoca non basta e della vita di Fernande Grudet si continua a saperne poco o nulla anche sul finire del film, quando la regista mostra stralci di notiziari d’archivio della vera Madame Claude ormai dai capelli bianchi e nello spettatore, finalmente, inizia a salire la curiosità di una donna da molti vista come simbolo d’emancipazione femminile. Di tutta quella foga emersa nel sesso rapido e disinibito, del film rimane in controcampo una distanza incolmabile con la sua protagonista, impedendone l’avvicinamento ma piuttosto innalzandolo a intorpidimento disinteressato di una storia potenzialmente esplosiva. Eppure la Grudet qualcosa da dirci sulle dinamiche del potere tra le donne di oggi e gli uomini lo aveva eccome. Lei, che sognava di prendersi gioco del potere dall’interno e che considerava l’amore una malattia.